martedì 17 maggio 2011

Emozioni. A caccia di adrenalina Contro il tempo che passa e il buon senso. Per quel piacere fino all'ultimo respiro

di Alina Lombardo
Arrivano in stazione o in aeroporto sempre all'ultimo momento. Sono perennemente in ritardo agli appuntamenti, specie a quelli che potrebbero cambiargli la vita. Si presentano impreparati agli esami. Attraversano col rosso. Oppure giocano d'azzardo: alcuni si accontentano della roulette francese, altri si spingono fino a quella russa. Oppure ancora, frequentano sport estremi: passeggiano nell'oceano in compagnia di squali, si gettano da un aereo in caduta libera. Approcci differenti alla vita, persone diverse. Eppure, tutte accomunate dalla ricerca del rischio di perdere sempre e comunque qualcosa. Può apparire una forzatura accomunare chi non è mai puntuale con chi, guidando a fari spenti nella notte, rischia la vita. "Invece non lo è", ribatte decisa Valentina D'Urso, docente di Psicologia all'Università di Padova. "Il rischio può essere sinonimo di piacere. Negli esempi descritti questo nesso è più o meno evidente. In molte persone si manifesta solo in alcuni periodi della vita, in genere nell'adolescenza, in altre non si manifesta mai: ma è un tratto del temperamento della personalità geneticamente determinato. Ed è presente in ciascuno di noi. Si pensi ai bambini: fin dalle prime settimane di vita, ciò che li diverte di più è essere lanciati in aria e cadere nel vuoto fino a incontrare le braccia dell'adulto". La ricerca di emozioni forti Il fascino del rischio deriva dal fatto che permette di provare emozioni forti, di vivere in maniera intensa: aumenta il senso della propria presenza nel mondo; i colori diventano più vividi; il tempo si dilata, pochi secondi sembrano ore. Tutti, in misura diversa, siamo attratti da queste sensazioni. E, con modalità diverse, le cerchiamo. Però, dopo le prime esperienze di questo genere, la maggior parte di noi fa una valutazione dei costi rispetto ai guadagni, scopre che tutto sommato il vantaggio che ne ricava è inferiore al rischio che corre e abbandona il campo, accontentandosi di vivere emozioni forti in modo indiretto, per esempio attraverso la visione dei film dell'orrore. Poi ci sono persone per le quali, invece, il piacere dato da un'esperienza rischiosa è comunque maggiore del timore nei confronti del pericolo che corrono e la rivivono nel tempo libero, sotto forma di gioco d'azzardo, sport estremo, assunzione di droghe, e così via. "E poi ancora", aggiunge D'Urso, "ci sono i "professionisti", i cosiddetti sensation seekers (cercatori di emozioni), ovvero persone con una "soglia di annoiabilità" molto più bassa degli altri, che sperimentano questa esperienza e ne diventano particolarmente ghiotti"."Il fenomeno del sensation seeking", precisa Cesare Maffei, psichiatra, docente di Psicologia medica all'Università di Milano e direttore del Servizio di psicologia e psicoterapia del San Raffaele, "è la continua ricerca di stimolazioni sensoriali nuove, diverse, forti. Ed è legata a certi tratti temperamentali della personalità. In altre parole, è almeno in parte geneticamente determinata. Il sensation seeker per eccellenza è la personalità antisociale che non riesce a dilazionare il bisogno, non ha alcuna considerazione dei limiti della realtà e degli altri. Ha quindi uno scarso senso morale e non tiene conto delle regole. Queste caratteristiche si ritrovano spesso nella personalità antisociale, ma possono indurre anche a comportamenti estremi come quelli dei serial killer". I borderline Accanto a queste anomalie della personalità, ci sono poi i cosiddetti borderline. Si tratta di quelle persone per le quali il problema non è tanto soddisfare i propri bisogni a spese d'altri, quanto uscire da quello che viene vissuto come un sentimento di noia e vuoto, al quale si cerca di risponde con comportamenti trasgressivi. "Un esempio tipico di comportamento della personalità borderline è la cleptomania", spiega Maffei, "molto frequente nelle donne: si ruba non per trarne vantaggio economico, ma per provare un piacere intenso come quello sessuale, molto vicino all'orgasmo". "In questo percorso che va dalla personalità antisociale a quella borderline", continua Maffei, "si arriva alle personalità istrioniche: che ricercano costantemente piaceri superficiali, gratificazioni alimentate con l'acquisto di oggetti, viaggi, ristoranti, conquiste sessuali senza capacità di entrare in rapporti di relazione duraturi con oggetti o persone". Tutte queste patologie della personalità sono accomunate dall'aspetto temperamentale del sensation seeker. Insomma: nessuno di noi è insensibile al fascino del rischio. Ma qual è la soglia entro la quale si rimane comunque "normali" e oltre la quale si entra nella patologia del sensation seeker? Quando si entra nella patologia "Il comportamento dell'individuo: si deve valutare se esso sia adattivo o disadattivo", risponde Maffei. Che spiega: "Una persona che, nella costante ricerca di emozioni forti, diventa un pilota di Formula 1, ha sviluppato un comportamento adattivo da un tratto potenzialmente disadattivo del suo temperamento. Se, invece, una persona usa l'automobile perché ha bisogno di provare l'ebrezza della velocità e finisce sempre per andare a sbattere per colmare il senso di vuoto che accompagna la sua vita, allora abbiamo un comportamento disadattivo. È quindi da valutare quanto il comportamento sia finalizzato al benessere e quanto invece il soggetto ne sia vittima". Il problema, comunque, si pone solo quando questi comportamenti assumono un aspetto di continuità nella vita di un individuo, creano difficoltà relazionali-affettivo-sociali, impediscono di evolversi e progredire. "La persona che fa una vita normale e poi al sabato va al casinò", rassicura Maffei, "non ha nulla né di patologico né di borderline: sono attività scelte sulla base dell'eccitazione e del piacere immediato che danno". Un profilo"avventuroso" Se quello del sensation seeker è un quadro ben delineato, meno numerosi sono gli studi sulla psicologia delle persone che, a diversi livelli, amano il rischio. Nel '94 due ricercatori, Stefano Ruggieri e Stefano Gargiullo, neurologo del Dipartimento di Scienze neurologiche dell'Università La Sapienza di Roma il primo, economista al Dipartimento di Metodi quantitativi dell'Università di Siena il secondo, hanno tentato di rilevare le caratteristiche psicologiche fondamentali di questi soggetti, confrontandole con alcuni dati tratti da un questionario di personalità (Mmpi) su un piccolo gruppo di "avventurosi" di entrambi i sessi. Dai risultati, pubblicati sul mensile "dedicato all'estremo" No Limits, risulta che non ci sono discriminanti per età; è presente una notevole ipervalutazione di sé; c'è equilibrio tra il peso dato all'accettazione degli altri e quello della propria autonomia; c'è tolleranza alle frustrazioni, anche per la tendenza ad attribuirne la responsabilità all'esterno, e capacità di autocritica; il profilo degli uomini è simile a quello delle donne; la mascolinità negli uomini è lievemente superiore alla media, così come la femminilità nelle donne, il che esclude ogni aspetto di androginia nella donna avventurosa. Inoltre, questi soggetti non conoscono la depressione (intesa come stanchezza, caduta di interessi, pessimismo, indecisione), se non quella reattiva, conseguente a una situazione gravemente stressante (come la perdita di un compagno d'avventura) o quella da successo che si può verificare quando la tensione emotiva è improvvisamente interrotta (tipica è quella dell'astronauta al ritorno dalla missione spaziale). Anche la mania (eccessiva stima di sé, iperproduzione di idee, sensazione di inesauribile forza fisica), che è all'opposto della depressione, non è tipica delle persone che amano il rischio. Il tratto della personalità che certamente appartiene a questa tipologia è, invece, un livello di mania inferiore, detto appunto ipomania. "Una componente", precisa Gargiullo, "che non è intesa come patologia ma come scudo per le avversità che spesso si verificano nel corso delle avventure e che tendono a spingere verso una depressione reattiva". .. Specchio, specchio delle mie brame. Anche se fa la parte del leone, la ricerca di emozioni forti non è l'unico elemento a spingere verso la ricerca di situazioni rischiose. "C'è anche una costante ricerca di conferme", dice D'Urso: "si è incerti sul proprio valore, che deve essere continuamente messo alla prova e confermato. Il rischio è come uno specchio, simile a quello della strega di Biancaneve". Paradossalmente, dunque, il rischio serve a rassicurare. "È una sorta di cura ricostituente della propria immagine", conferma D'Urso. "Dati recentissimi, raccolti tra un centinaio di studenti (60% donne e 40% uomini) della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Padova (vedi box), suggeriscono inoltre che c'è anche un altro elemento: cercare la conferma di essere segnati dalla buona stella, che ti conferma "vincitore" ogni volta che superi un pericolo". Il fascino della paura Alla radice di tutto questo c'è l'attività di quella macchina tanto straordinaria quanto ancora poco conosciuta che è il nostro cervello. La paura è un'emozione primaria che scatena una serie di reazioni che possono dare sensazioni di piacere, di benessere. Eccitanti, persino inebrianti. Dice D'Urso: "Vivere un'esperienza rischiosa produce una reazione molto simile a quella data da alcune droghe, in particolare dall'LSD, cioè un'esaltazione di tutte le percezioni: visive, tattili, olfattive, uditive, gustative". Sono numerosi gli esperimenti che lo dimostrano. Il più noto è stato condotto da psicologi dell'Università del Michigan e ripetuto, con variazione, da numerosi altri ricercatori. Ecco in cosa consiste: diversi ragazzi incontrano una ragazza, sempre la stessa, su un ponte sospeso. Per metà dei ragazzi, l'episodio si svolge in condizioni normali; per l'altra metà, al momento dell'incontro il ponte viene fatto ondeggiare pericolosamente, dando la sensazione che possa crollare da un momento all'altro. Ebbene, il secondo gruppo dei ragazzi, intervistati successivamente, ha evidentemente trovato la ragazza molto più attraente di quanto sia apparsa al primo. La conclusione? "Se oltre a provare emozioni forti" dice D'Urso "si vuole conquistare una ragazza, è meglio portarla sulle montagne russe piuttosto che a mangiare un gelato. Perché di fronte alla paura, al rischio, l'eccitazione che ne deriva è talmente forte da coinvolgere in qualche misura anche le persone che sono vicine". Tutto comincia nel cervello Quando l'uomo si trova di fronte al pericolo scatta automaticamente la reazione "combatti o fuggi", che determina numerose modificazioni dell'organismo. "Da una parte", spiega Pierfranco Spano, direttore dell'Istituto di Farmacologia dell'Università di Brescia, "si ha un'attivazione generalizzata del sistema simpatico e, attraverso la stimolazione della ghiandola surrenale, l'immissione di adrenalina e noradrenalina nel sangue; dall'altra parte, si ha una sincronizzazione degli eventi a livello cerebrale: la risposta agli stimoli rimbalza in "stazioni" situate sotto la corteccia, cioè nel sistema limbico", una serie di strutture correlate alle emozioni e al comportamento. In particolare nell'amigdala, piccolo nucleo di cellule nervose nella profondità dell'encefalo, essenziale per il formarsi della risposta emotiva alla paura. "Questo nucleo", prosegue Spano, "dispone dei segnali che, amplificati e ritrasmessi, creano una serie di attivazioni specifiche". Ed ecco verificarsi quello che tutti abbiamo sperimentato in situazioni di paura o stress: pupilla dilatata, perché si ha bisogno di raccogliere più luce; respiro affannoso, perché si ha bisogno di più ossigeno; costrizione dei vasi dei visceri, per fare affluire più sangue ai muscoli e al cervello dove, infatti, i vasi si dilatano. Quelle droghe così naturali Oltre all'adrenalina e alla noradrenalina, responsabili degli effetti immediati appena descritti, altre sostanze vengono rilasciate nel cervello in risposta al pericolo: ancora noradrenalina, per sostenere la pressione sanguigna; serotonina, per il tono dell'umore; dopamina, che influisce sull'attenzione e sull'aggressività e modula i centri del "piacere"; endorfine. Queste, presenti nell'ipotalamo e nell'ipofisi, funzionano come eccitatori del sistema analgesico cerebrale: esattamente come la morfina, non fanno sentire dolore e fatica, in quanto riducono la percezione di entrambi a livello del sistema nervoso centrale. Inoltre, producono uno stato di euforia. Ma cosa dà quella sensazione di piacere inebriante che spinge molti a cercare il pericolo ed il rischio? "Le sostanze che, in risposta a questo stimolo, vengono rilasciate dalle nostre cellule nervose" risponde Spano. "Tutte sostanze che, in varia misura, danno un senso di benessere e di eccitazione, e accentuano la capacità di percepire ciò che accade intorno"

tratto da La Repubblica

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